REFERENZE
Fusar è il fotografo di un grande settimanale milanese.
Attivo, intraprendente, tempestivo, il suo obiettivo ha fissato le immagini più diverse della cronaca di questi anni: una cronaca fitta, incalzante, dove s’avvicendano fatti e personaggi, farsa e tragedia, grandezza e miseria. Oggi però, in questa sua prima mostra, non sono le immagini della cronaca che egli ci presenta, bensì il geloso risultato di una breve esplorazione alle soglie di Milano: un risultato non spettacolare, ma non per questo meno sorprendente.
Fusar dunque, con la sua macchina fotografica, non è partito per un lungo viaggio: s’è allontanato soltanto pochi passi da casa ed ha incominciato un’affettuosa ricognizione di quell’esigua e patetica vena d’acqua che ogni lombardo conosce col nome di Lambro. E non ha avuto neppure bisogno d’indagarne tutto il corso, tante sono le cose che egli ha scoperto in due o tre pertiche di sponda.
A mano a mano che il suo obiettivo è passato dalla visione generale del paesaggio ad una porzione sempre minore di spazio, sino a concentrarsi su di un solo palmo di realtà, la ricchezza brulicante, pullulante, fenomenica della verità naturale gli si è rivelata con straordinaria evidenza.
Ed è soprattutto l’acqua che ha esercitato il suo fascino su Fusar. Quando, per la prima volta, egli mi ha mostrato la prima serie di fotografie che aveva eseguito, mi sono venute alla memoria certe pagine scritte sull’acqua da Leonardo: “L’acqua è infra li quattro elementi il secondo men greve e di seconda volubilità... Lei collega e aumenta li corpi, e gli dà accrescimento.
Nessuna cosa più lieve di lei la può senza violenza penetrare. Volentieri si leva per lo caldo in sottile vapore per l’aria. Il freddo la congela, stabilità la corrompe; piglia ogni odore, colore e sapore, e da se’ non ha niente. Penetra tutti li porosi corpi … Nel suo veloce corso si fa sostenitrice delle cose più di lei lievi. Possi con moto e balzo elevarsi in alto. Quando essa cala, sommerge con seco nelle sue ruine le cose di lei più lievi. Il principato del suo corso fia alcuna volta in mezzo, alcuna volta in fondo. L’una quantità sormonta sopra l’ intraversato corso dell’altro, e se così non fussi, le superfizie dell’ acque correnti sarebbero senza globi…".
L’obiettivo di Fusar è diventato Leonardesco. Egli ha scoperto le meraviglie dell’acqua senza tradirne la natura. Utilizzando il gioco dei riflessi, le sfumature, le frange, i riccioli, gli arabeschi del chiaroscuro avrebbe potuto darci un ciclo di variazioni astratte: ha invece preferito, fedele al suo mestiere, darci una cronaca minuta dell’ acqua di un piccolo fiume, convinto che nulla è più straordinario della verità delle cose scrutate nel loro segreto.
Chi avrebbe mai pensato che un piccolo corso d’acqua ricreasse se stesso ad ogni istante in mille forme così strane e diverse, ora liscio, sinuoso e tenero, ora arruffato e bambagioso, ora fosco e monotono ed ora crepitante di luci, ora tutto gorghi e mulinelli ed ora stirato, pettinato, agghindato? L’obiettivo di Fusar ha fermato sulla lastra questi mille volti, queste mille metamorfosi, le fantasie e i capricci dell’acqua.
La perizia di Fusar è indiscutibile ma ciò che più conta è la sua curiosità, la sua capacità d’ indagine e di scelta. Oggi non mancano davvero gli esempi di una fotografia che punta tutte le sue carte sull’ irrealtà come unica possibile via ad una libertà d’invenzione, ad una creazione di puri valori foto-plastici.
Col suo lavoro Fusar ha invece dimostrato che l’invenzione più arrischiata può coincidere con l’oggettività, con la verità più circostanziata delle cose.
I fogli che egli espone alla Gian Ferrari, mi pare, a questo proposito non lasciano dubbi. E ciò costituisce per me il suo merito maggiore.
Verità e poesia, e nessuno si scandalizzi se oso evocare qui l’illustre binomio goethiano parlando di fotografia, nei fogli di Fusar si danno la mano, convivono giustamente d’ amore e d’accordo.
FUSAR RAPPRESENTA E GIUDICA
Con Evaristo Fusar sono andato a trovare Katia Mann, e ho passato un mese nel nord dell'Europa, tra le strade di Stoccolma e tra i lapponi, fra gli ubriachi di Helsinki e nei villaggi tra le foreste.
E' un buon amico, un buon compagno di viaggio, ed è anche un grande fotografo.
Sa "vedere", non c'è niente da suggerirgli: tu pensi alla tua storia, lui già la fissa, e la interpreta, con le sue immagini.
Sta dentro alla realtà, ma riesce ad afferrare quel momento che conta, e a giudicarlo.
Da venticinque anni va per il mondo, e ha narrato la cronaca pettegola e drammatica, solenne e miserabile di questo tempo:
c’è Montini che arriva vescovo a Milano, e regge con fatica la sua croce, e c’è Carnera, il vecchio campione, umiliato dalla commedia della lotta libera, c’è la ragazza Sofia Scicolone che abbraccia il produttore Carlo Ponti e si avvia a diventare la Loren, e la faccia severa e dura di Winston Churchill, quella malinconica di Fausto Coppi, il sorriso pieno di speranza di Maria Callas, c’è la Francia di Brigitte Bardot e la Spagna di Franco, i romanzi del rotocalco, e la tragedia della politica.
Un grosso albo delle figure e figurine che hanno animato le nostre vicende.
Fusar crede nel suo lavoro, ma senza l'alterigia dei nuovi arrivati, con l'umiltà dell'artigiano: prima cerca di capire, poi di rappresentare.
Non scatta molto, scatta giusto.
Ha imparato la lezione del fotogramma che vale cento parole, e sa che non bisogna sciuparlo con troppi aggettivi.
Di un personaggio coglie un piccolo segreto, di una situazione il senso, che è dolore, pace o rassegnazione.
Guardate le sue foto: ci troverete, come in quelle di Cartier-Bresson o di Capa, quei momenti che hanno caratterizzato un'epoca.
Anche le nostre brevi illusioni e le sconfitte.
Come giornalisti invidiamo i fotoreporters per molti motivi.
Primo: l’apparecchio fotografico a tracolla gli dà una sorta di ufficialità, gli apre tutte le porte, mentre noi, che al massimo siamo armati di taccuino e di biro, dobbiamo superare ostacoli ad ogni passo, esibir tessere, vincere sorrisini scettici o sarcastici.
Secondo: scattato il famoso clic il loro lavoro è finito. Sviluppare e stampare è ormai diventato uno scherzetto. Noi dobbiamo invece buttarci sulla macchina per scrivere e travasare in bianco e nero, distillare, spremerci.
Terzo: con i tempi che corrono - fumetti, televisione e cinema aiutando - la parola scritta è in netta crisi, le immagini stravincono; i lettori "guardano le figure" poi, talvolta, danno anche un’occhiata al testo, ma nella maggior parte dei casi passano oltre, verso nuovi disegni e nuove foto.
Quarto: il noto complesso di inferiorità diventa più pesante quando a fare le foto è un tipo come Evaristo Fusar che espone in questi giorni alla galleria Viotti.
Il quale conferma il detto "vale più una bella immagine che un chilo di parole"
Le sue immagini, effettivamente sono impeccabili, fanno centro e mettono a nudo: siano "I miei amici minatori" come "Morire ad Orgosolo", siano quelle sapide vignette intinte nel curaro, con cui vengono descritti francesi e spagnoli ed inglesi. Ed i ritratti: Carnera che si batte, poveraccio, contro l’Uomo mascherato (tutti e due unicamente allo scopo di portare a casa qualche dollaro), ma soprattutto Orson Welles, demoniaco, istrionesco come ogni cosa che faccia o che dica, e poi Sophia e Soraya e le mille facce che Fusar ha acciuffato con i suoi click in tutte le parti del mondo.
Come abbiamo visto e vediamo sulle copertine dell’ "Europeo" o della "Domenica del Corriere" di cui è una delle colonne. Questo Fusar, oltretutto, è anche giovane: quarantatre anni, e prima che abbia l’età di Ansel Addams chissà che cosa riuscirà a farci vedere.
Dicono che abiti ad Arese, ma là ci deve stare un suo fratello gemello: è impossibile che uno così freneticamente impegnato riesca anche ad avere ciò che si dice un’abitazione. La quale, comunque, deve essere piuttosto un laboratorio che una casa; le poche ore di libertà che il lavoro gli lascia, Fusar deve trascorrerle al buio della camera oscura, da cui escono quelle altre sue foto (che forse sono quelle che ama di più), che sono difficilissime da fare perché non rappresentano quasi nulla: sono suggestioni di forme, accostamenti grafici, uova e pagnotte spremute a simbolo, acqua che scorre, forme lunari evanescenti, che egli ottiene sottoponendo a inaudite torture negativi e carte. Una specie di rivincita, insomma, o di altra faccia rispetto al suo lavoro normale che consiste nel documentare freddamente.
La mostra Fusar, alla galleria Viotti, resta aperta fino a Giovedì. Per me la foto migliore è quella che rappresenta un enorme elefante accanto ad una esile gazzella.
Quarantanove anni, dal 1953 reporter, Evaristo Fusar presenta una storia, la sua e del suo reportage, che è quella di una generazione.
Il suo lavoro trasforma i fatti in immagini, i racconti in discorso critico.
Della mostra non rispetteremo l’organizzazione tematica, cioè a dire inglesi, francesi, spagnoli divisi, meridione distinto da ecologia o da manovre militari, personaggi da storie di cronaca, ma cercheremo di vedere la storia del reportage dentro quella della moderna fotografia.
Gli inizi di Fusar sono dentro la nuova vogue della foto di cronaca della Magnum, ma il peso di quel discorso emerge più chiaramente nel corso degli anni Sessanta. Troviamo, in questo periodo fra i Cinquanta e i Sessanta, tre diversi filoni che caratterizzano un po’ anche la nostra storia della fotografia e che in Fusar vengono intersecandosi.
Da una parte, l’ impatto della foto sociale americana, della Farm Security Administration soprattutto, come nella serie Minatori italiani (1958); dall’altra, il Réportage francésisant, ma non senza il ricordo di alcune ricerche del nostro Ugo Mulas, come in Mensa operaia a Rostock (1964) e in molte altre interessanti immagini sulla Repubblica democratica tedesca di quegli anni; ma troviamo anche, e si tratta di un nucleo cospicuo nella storia di Fusar, il documento sul meridione, sul sud e le isole, come le foto notissime della serie Funerali a Orgosolo (1961) oppure Cimitero a Orgosolo (1961): brulla campagna, figure nere, impianto alla Dorothea Lange, dunque tradizione de Il mondo e de Il politecnico ma anche riflessioni sulle ricerche antropologiche di Franco Pinna.
Dobbiamo chiederci come mai il reporter utilizzi tre lingue, tre culture, in pratica negli stessi anni: forse perché non ne possiede una propria? No di certo, Fusar è consapevole che le "scritture" fotografiche sono una forma di impianto retorico, sono strumento, "stile" di narrazione che viene costruito sull’immagine e che le dà senso.
Per questo il meridione si narra come insegna ormai, dagli anni Cinquanta, una precisa tradizione di immagine; e i minatori si fotografano secondo i dettami della Fsa, la più grande impresa di foto sociale mai realizzata e che fa scuola da noi nel dopoguerra e dopo; infine gli episodi della cronaca, quelli delle vicende degli attori e delle attrici, dei grandi personaggi, dei protagonisti come dei comprimari, si leggono, con occhio ironico e con l’istantanea pronta, seguendo la linea, la "scrittura" appunto, della scuola della Magnum, l’agenzia che, della foto di cronaca, ha fatto la chiave, con la bressoniana immagine rapita, di un modo disincantato di vedere il mondo.
Da tutto questo emerge chiara la funzione del fotografo come narratore, una funzione che, da noi, prende corpo soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta. Una conferma? Vediamo una sola immagine, Operai di una fabbrica di trattori presso Belgrado nella sala del consiglio (1962): ecco il tavolo, figure dalle mani educatamente intrecciate, volto sorridente e veduta frontale, due posacenere e un paio di scatole forse di medaglie, infine il ritratto aulico, realista di Tito, bronzo, frontale pure lui, e la targa col Lenin al centro; come a dire, ecco il santino della rivoluzione, inquadrato bene dal tubo che corre a livello delle teste dei protagonisti.
Fusar, insomma, vuol dirci che fotografare da reporter è far storia, ma con stili diversi; narrazione intimista, epica di racconto, oppure anche amara, critica analisi attraverso le immagini. E forse è questo il tipo di "scrittura" che lui preferisce.
Quanta simpatia, quale gentilezza di tocco, quale sottile strategia davanti ai personaggi accarezzati dalla fama, sono presenti nelle fotografie di Evaristo Fusar nelle sue cronache trascritte in ogni parte del mondo e nei suoi ritratti!
Per avere una ulteriore conferma delle qualità tattili e insieme ariose di questo nostro straordinario autore nato a Milano nel 1934, e che per vent’anni è stato fotografo-giornalista per la "Domenica del Corriere" e che in questi giorni ha cominciato a lavorare per "Capital", basterà guardare, ma proprio guardare attraverso il puro, divertito e disinteressato piacere dell’occhio, la sua mostra "La Francia degli anni Sessanta", che, organizzata dal centro culturale francese, s’inaugura oggi alle 18,30 presso l’ufficio informazioni del Comune di Milano, nella galleria Vittorio Emanuele (angolo Piazza Scala), che resterà aperta fino al 15 maggio e che è accompagnata da un bel catalogo edito da Le Monnier.
Quando si osservano le immagini del passato si pensa sempre, magari con un po’ di cattiveria, al crollo, anzi, come si dice oggi, alla dissacrazione di un mito.
Con Fusar questo non succede, perché quando ha scattato quelle foto, dinanzi a tanti personaggi della Francia politica, letteraria, cinematografica, della moda e del costume, egli aveva già trovato il punto giusto di rivelazione.
Non ci voleva sedurre con immagini eccezionali, eclatanti, magiche, fotografie insomma in cui il mito veniva ancor più accentuato e rafforzato per la gioia dei lettori, i quali volevano vedere la Bardot, la Morgan, Jean Gabin, Pascale Petit, Jean Renoir e René Clair, il generale De Gaulle, i sarti celebri e le deliziose indossatrici, non tanto come creature in carne e ossa, con il loro prestigio e le loro debolezze, quanto invece come presenze mitologiche, avvolte da un tenero alone estetizzante.
Fusar procedeva cauto, morbido, felpato, guidato da quella sua educazione visiva che lo portava a trasmettere la limpida sintesi di un fatto e di un gesto.
Per questo oggi le sue immagini appaiono così piane ed essenziali, e non concedono nulla a quegli effetti facili, destinati sempre, col tempo, a diventare oggetto delle nostre illazioni e magari anche della nostra derisione.
Fusar ha offerto un ritratto amabile ma anche lucido e concreto della Francia di quegli anni, di un periodo storico in cui il pubblico credeva ancora nell’ infallibile obiettività del reporter.
Sappiamo invece anche che il giornalista più esatto deve sempre saper scegliere e dare di conseguenza il suo giudizio sul mondo che dà spettacolo di se stesso.
Evaristo Fusar, uno dei nostri migliori fotoreporter, è un autore curioso.
Curioso perché è alla continua ricerca di spunti e motivi; e curioso perché è diverso dalla maggior parte di coloro che scattano, registrano, raccontano magari in maniera perfetta, ma poi basta, non si muovono di un filo oltre questi dati della cronaca e della ordinaria amministrazione di se stessi e del loro lavoro.
Fusar invece vuole vedere e farci vedere - come nelle immagini esposte fino al 10 aprile alla Galleria Cafiso, in Piazza San Marco 1 - cose e situazioni insolite: quelle che il fluire della vita comune normalmente non propone, quelle che l’occhio nudo non sempre sa e vuole captare.
Ed ecco, in mostra, le "Acque" (1964), le "Ovografie" (1978), le "Stonegrafie" e finora inediti, i "Fusarbolli".
Di che cosa si tratta? Non è il Fusar narrativo, di cui parla Enzo Biagi nella presentazione, il fotoreporter che "sa vedere" e "non c’è niente da suggerirgli", perché "sta dentro la realtà" e "riesce ad afferrare quel momento che conta, e a giudicarlo. Guardate le sue foto: ci troverete, come in quelle di Cartier-Bresson o di Capa, quei momenti che hanno caratterizzato un’epoca".
Pertanto, non è questo l’autore scattante, amabile e con una sua umanità gentile, bene educata, discretamente ironica e quasi sempre tenera nei confronti dei nostri destini, proposta dalla svelta e sciolta antologica. È, al contrario, il Fusar dello studio analitico e minuzioso degli eventi del mondo naturale e della realtà quotidiana, alla ricerca e alla riscoperta di quelle strutture, di quei toni e di quei nessi formali che non sempre il nostro sguardo, pigro, perché così avvezzo da sempre, non sa e non vuole catturare.
È il Fusar con un occhio in più che pensa e interpreta visivamente la vita di un microcosmo in grado di farsi macrocosmo. Ma ecco l’ultimo Fusar, coi "Fusarbolli" in cui, detto molto in sintesi, quel che conta è la cornice, quella appunto frastagliata dei francobolli, con cui il fotografo inquadra volti e segni del mondo d’oggi: immagini, a loro volta, manipolate e reinventate attraverso diversificati processi di stampa, di colori spray e di luce.
La cornice, si sa, non è un supporto meramente esteriore. Una bella cornice, funzionale e indovinata, può far diventare suggestivo un dipinto anonimo e banale. Viceversa, una cornice brutta o volgare può soffocare e ingrigire un quadro bellissimo. Comunque, questa non è una trovata fine a se stessa.
Come capita con i francobolli, che hanno sempre qualcosa di celebrativo e di encomiastico, pur in una apparente semplicità, la cornice enfatizza, esalta, ingrandisce, accresce l’evidenza materica dell’insieme.
E anche qui, tutto sommato, c’è il Fusar delle acque, delle uova e delle altre forme della natura, scrutate col "terzo occhio" della sottile attenzione. Come dal microcosmo, negli altri lavori, si arriva a un senso straordinario e profondo della nostra realtà, così in queste immagini-francobollo, attraverso procedimenti non estranei all’arte pop di un Warhol, di un Lichtenstein, di un Rauschenberg, o di un Dine, si giunge a una nuova, più attuale e inquietante forma di ritrattistica.